Fucine


“ Et tutto questo ferro si porta alle fusine che sono fabbricate sopra li fiumi Caffaro e Chies, che cammina per la valle e per le terre di essa (…). Dal ferro poi si formano et fabricano tute quelle sorte d’instrumenti che si puono immaginar per universal beneficio.”


G. da Lezze, 1609.

 

Il ferro prodotto nei forni fusori giungeva presso le numerose fucine grosse e minute della valle. Nelle fucine grosse si riduceva la ghisa in ferro, che in quelle piccole veniva trasformato in manufatti finiti.
Dal Catastico di Giovanni da Lezze del 1609, emerge tutto l’importanza che il settore siderurgico ricopriva nel sistema economico valligiano. Sommando gli impianti dislocati nelle diverse realtà territoriali, la Valle Sabbia poteva contare su settantasette tra fucine grandi e piccole.
Si era quindi in presenza di una struttura produttiva articolata, che ricopriva un ruolo di primo piano all’interno dei diversi poli siderurgici dell’arco alpino.
Bagolino annoverava quattordici fucine, una Anfo, due Lavenone, due Vestone, una Nozza, trentacinque il Savallese, quattordici Odolo, quattro la Pertica. Le fucine grosse si trovavano a Bagolino, Odolo, Savallo, Lavenone e Vestone.
In funzione della qualità della produzione, gran parte delle fucine di affinazione si trovava a Bagolino. Qui venivano prodotti “navassi” ed armi, che per la loro resistenza erano ricercate in tutto lo Stato veneto, ma anche a Milano, Torino, Senigallia, da dove, durante la celebre fiera, passavano via mare ai diversi Stati europei.
A Vobarno, si costruivano le ancore per la flotta veneta. Ad Odolo venivano fabbricati attrezzi agricoli di vario tipo, soprattutto badili. A Levrange, Ono, Casto e Malpaga si producevano chioderie e si “scartava” la lamiera. Nei Comuni di Degagna e di Vobarno, si fabbricavano “ferrarezze” di tutte le sorti. Lavenone nel XVII possedeva sei fucine: due grosse dette “Gheza” e due minute dette “Fol”, sul fiume Chiese, insieme ad altre due fucine minute, dette “Biocol” e “Fusinet”, che si trovavano sul torrente Abbioccolo. Nel XIX secolo, funzionò anche una fucina per la lavorazione del rame.
I fucinatori formavano un mondo a sé. La fucina favoriva l’incontro delle idee di tutti i paesi, anche dei più lontani e discordi. Era il mestiere che lo richiedeva, perché il mestiere si perfezionava valicando i confini ristretti della giurisdizione pagense, alla ricerca di mercati più aperti. I maestri del ferro, i fucinatori ed i chiodaroli costituivano le maestranze, organizzate in comunità. Il loro santo tutelare era S. Aio o S. Eligio, di cui esiste un raro affresco votivo del primo ‘500 nella Chiesa superiore della Rocca a Sabbio Chiese.
Durante i primi anni del XVIII secolo, gli impianti siderurgici locali dovettero confrontarsi con un processo di selezione delle strutture produttive che portò alla chiusura delle fucine meno efficienti. Nel 1757, inoltre, le inondazioni di molti corsi d’acqua causarono la cessazione di molti opifici.
La realtà siderurgica bresciana fu oggetto di numerose indagini, tra le quali la più completa e diversificata risulta essere quella redatta dallo studioso G.B. Brocchi nel 1802 (Memoria sulle miniere del Dipartimento del Mella). L’autore segnalava l’esistenza di cinquanta fucine così dislocate: Bagolino 12, Anfo 2, Lavenone 6, Vestone 6, Ono 2, Bione 7, Odolo 6, Malpaga 4, Casto 5. Molti fucinatori furono costretti ad emigrare lontano, mentre altri, secondo le antiche consuetudini montane, tornarono alle usate abitudini dei padri, procurandosi sostentamento attraverso la raccolta della legna e del pattume nei boschi.
A partire dagli anni Sessanta del Novecento, si poté assistere al rilancio economico della piccola e media impresa sotto il marchio della tradizione artigiana del ferro, soprattutto in quei paesi, Odolo e Casto in testa, dove in passato era ben radicata la tradizione siderurgica.